Prolusione per l'apertura dell'A.A. 88-89 nell'Università degli studi di Pavia |
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Magnifico Rettore, Signor Ministro della Ricerca Scientifica, Eccellenze, Autorità, illustri Colleghi, stimati Studenti, gentili Signore e Signori, nell'accingermi a sviluppare queste brevi riflessioni sul ruolo dell'impresa nell'economia contemporanea - vale a dire sulle attese che nutriamo circa la funzione dell'impresa nel mondo di oggi - ho dovuto scegliere tra due alternative: descrivere la funzione dell'impresa nell'ambiente economico e nell'epoca che ci è dato di vivere, oppure cercare di spiegare, non semplicemente di descrivere, qual è stato, è e, presumibilmente, sarà la funzione dell'istituto-impresa nell'attuale fase di evoluzione dell'Umanità. La prima soluzione avrebbe reso il mio compito molto semplice; avrei potuto, infatti, esaurire il tema con due sole parole: "Guardiamoci attorno!". L'impresa non è certamente il solo istituto produttore di ricchezza che l'Umanità abbia conosciuto, ma nelle epoche e nei luoghi ove essa si è sviluppata - e l'osservazione attraverso il tempo e lo spazio non possono che confermarlo - il benessere e la "ricchezza" sono più copiosi che altrove. Cinque, in particolare, sono i "grandi fenomeni" dell'economia contemporanea che hanno l'impresa quale protagonista e che, "guardandoci attorno", possiamo osservare (di altri, forse altrettanto rilevanti, non posso dare conto in queste brevi riflessioni):
La "mia" risposta si sviluppa attraverso quest'ipotesi: l'impresa non deve essere osservata solo come un sistema in grado di produrre beni o servizi, ma - ritengo - deve essere considerata come il centro in cui si alimenta al massimo grado un più generale fenomeno che regge le sorti economiche (e non solo economiche) dell'Uomo: il fenomeno della produttività[1]. La produttività - a mio giudizio - è il vero fenomeno da spiegare; l'impresa non è che uno tra gli strumenti per produrre, atti ad alimentare tale fenomeno; ma è stato lo strumento che, tra tutti, ha accelerato al massimo grado la crescita della produttività. UNA PREMESSA: I SISTEMI DI TRASFORMAZIONE E I SISTEMI DI TIPO COMBINATORIO Per affrontare più agevolmente l'argomento, ritengo utile considerare il fenomeno "impresa" secondo l'ottica sistemica: ogni singola impresa si interpreta quale sistema di trasformazione; le imprese, nel loro complesso e nei loro mutui rapporti, formano un sistema di tipo combinatorio. I sistemi sono strutture ordinate, formate da elementi che interagiscono, onde consentire al sistema di produrre un certo effetto. In base alla struttura interna e al modo di produrre i loro effetti, possono distinguersi in:
Sono sistemi operatori quelli formati da parti diverse (da elementi funzionalmente differenziati), denominate "organi", ciascuna specializzata nello svolgimento di date operazioni, secondo informazioni; ogni individuo biologico è la massima espressione di sistema operatore; anche un asciugacapelli, una Università, una grande fabbrica, un apparato statale sono, però, osservabili quali sistemi operatori. Sono, in particolare, sistemi operatori di trasformazione quelli i cui organi sono preordinati per attuare la trasformazione di dati elementi in altri. La mente umana che trasforma informazioni in operazioni, un mulino che trasforma frumento in farina o la grande corporation che trasforma fattori in produzioni sono esempi di sistemi di trasformazione. Sono, invece, sistemi combinatori - cosė definiti in quanto in essi trovano composizione diversi comportamenti - quelli formati da elementi simili che svolgono tutti attività analoghe - vale a dire i "micro comportamenti" -, secondo informazioni sullo stato e sul comportamento degli altri elementi del sistema; dalla composizione, o combinazione, dei micro comportamenti risulta il comportamento complessivo del sistema, il "macrocomportamento". Le società, le popolazioni, le stesse onde del mare, lo sciame di cavallette, la travolgente carica degli elefanti, la dinamica di una coda di automobili in autostrada, l'alzarsi degli spettatori allo stadio quando, si alzano quelli delle prime file, sono esempi evidenti di sistemi combinatori. Il comportamento degli individui dà vita a quello del sistema, ma il comportamento del sistema, a sua volta, ingloba, indirizza e condiziona quello degli individui, quasi che un regista nascosto, una "mano invisibile" regolasse i microcomportamenti per mantenere il comportamento dell'intero sistema. Mi si consenta di insistere su questo punto particolarmente importante, presentando un semplice esempio: supponiamo di essere in una sala da ballo; inizia la musica; si suona un bel valzer; entriamo nella pedana per ballare; all'inizio tutte le coppie si trovano alquanto imbarazzate, poiché, danzando secondo una direzione decisa autonomamente da ciascuna coppia, incominciano le gomitate, le spinte, gli urti; poi, per caso, qualche coppia si mette a girare in circolo, per esempio in senso orario, liberando spazio; altre coppie approfittano dello spazio per orientarsi in quella direzione; ben presto tutte le coppie della sala si adegueranno (saranno "costrette" ad adeguarsi) a tale andamento e finiranno per danzare in modo ordinato, seguendo un orientamento circolare, quasi che un regista, appunto, avesse ordinato di seguire quell'andamento. Se il "caso" avesse favorito l'andamento in senso antiorario, il sistema, per "necessità" avrebbe assunto un macrocomportamento opposto al precedente. Quanto sarebbe stato più semplice se un cerimoniere ufficiale avesse, sin dall'inizio, disciplinato l'orientamento della danza![2] LA TELEONOMIA ENDOGENA E ESOGENA DEI SISTEMI Occorre, però, chiarire un altro concetto indispensabile per le conclusioni. I sistemi sono caratterizzati da "teleonomia" e possiamo distinguere tra teleonomia endogena e esogena. Questo termine è difficile da definire con precisione senza ulteriori considerazioni che ci porterebbero inevitabilmente lontano dal nostro tema; molto semplicemente, la teleonomia può essere considerata come la caratteristica di un sistema a mantenersi attivo nell'ambiente, nel macrosistema di cui è parte. La teleonomia endogena è l'attitudine (il comportamento) del sistema a mantenere la sua struttura; è l'effetto di un comportamento messo in atto dallo stesso sistema per evitare il dissolvimento. La teleonomia esogena è, invece, l'attitudine dell'ambiente a mantenere "in vita" una data specie di sistemi in quanto l'ambiente stesso li considera utili. I parassiti dell'uomo sono stati pressoché eliminati in quanto non godevano di teleonomia esogena; l'ambiente li ha rifiutati, anche se .. non è difficile immaginare lo sforzo che quei piccoli sistemi biologici hanno fatto per mantenersi in vita nonostante gli antiparassitari ...; ma non godevano di sufficiente teleonomia endogena (anche se mutazioni genetiche che hanno reso alcune specie resistenti agli antiparassitari)[3]. Con questo quadro concettuale minimo possiamo ora affrontare il tema del ruolo dell'impresa nell'economia e già fin d'ora possiamo porre correttamente le domande cui tenteremo di dare risposta: se le imprese sono sistemi operatori di trasformazione che fanno parte di un sistema combinatorio più vasto, analizzarne il ruolo, la funzione, significa ricercare, da un lato, le caratteristiche che spingono le imprese a mantenersi in vita - sviluppando la teleonomia endogena - e, dall'altro, le caratteristiche che spingono il sistema economico ad accettarle come strumento per la produzione. L'UNIVERSO IN CUI SI SVILUPPANO I COMPORTAMENTI ECONOMICI L'"universo" oggetto dell'indagine da parte di uno scienziato ha in sé caratteristiche che questi accetta come tali, caratteristiche che sono l'essenza stessa della realtà che si propone di analizzare, talché la loro assenza comporterebbe il venir meno dell'oggetto stesso di studio. Il fisico, ad esempio, non pone in discussione l'esistenza della forza di gravità o delle forze nucleari; senza di esse, ben pochi sarebbero i fenomeni da studiare! Il biologo non pone in discussione la capacità degli organismi viventi di riprodursi, di cercare di perpetuare la specie. Senza tale fenomeno, verrebbe meno l'oggetto stesso di studio della biologia. Le imprese, sistemi operatori, agiscono in un macrosistema socio-politico-economico in continua evoluzione. Domandiamoci, allora, innanzitutto, quali siano le "forze" che garantiscono all'universo dei comportamenti economici il continuo movimento, la continua evoluzione. I "postulati fondamentali" considerati dalla economia aziendale circa le "forze" che danno vita all'universo dei comportamenti economici, senza le quali non si manifesterebbero questi stessi comportamenti, per cui non si potrebbe dare ragione delle aziende e della loro evoluzione, possono ridursi ai seguenti:
In un universo osservativo nel quale i bisogni non sussistessero, e/o le "risorse" disponibili fossero sovrabbondanti, e/o l'uomo si rivelasse inoperoso, e/o imprevidente, o operasse isolatamente, senza attuare scambi, non si manifesterebbero comportamenti economici e, per inciso, non vi sarebbe applicazione della scienza economica. Dopo avere esaminato i postulati che garantiscono l'esistenza di un sistema economico, dobbiamo ora chiederci: "Com'è nata l'impresa?". Solo dopo avere chiarito questo punto, potremo coglierne la funzione, le caratteristiche, il ruolo. Agli inizi dell'attività economica dell'uomo, è presumibile che fosse preponderante l'attività di consumo. L'attività di produzione - cioè di applicazione del lavoro per ottenere i beni necessari per soddisfare i bisogni e per appagare le motivazioni -, pur sempre necessaria, era unita a quella di consumo; la produzione ai soli fini del consumo del produttore si può definire autoproduzione. Una considerazione appare della massima importanza: poiché la produzione richiede lavoro, e il lavoro è penoso (faticoso, oneroso), con l'autoproduzione l'uomo produceva solamente i beni dei quali sentiva personalmente il bisogno e nella quantità appena necessaria per il consumo (ipotesi di razionalità). Perché produrre più di quanto fosse necessario per i propri bisogni e per quelli dei componenti della famiglia o della tribù? Perché faticare più del necessario? L'autoproduzione era finalizzata al consumo. Quanti agricoltori, ancora oggi, e nel nostro Paese, coltivano un campicello di verdura per i propri bisogni e allevano conigli per il proprio consumo? Ma quali tra questi coltivano o allevano più di quanto presumono di potere consumare? Per millenni, dunque, l'attività produttiva ha assunto la forma dell'autoproduzione ma, con l'aumentare della densità della popolazione su un dato territorio e con il miglioramento dei trasporti e delle comunicazioni, gli uomini si sono resi conto che risultava più conveniente specializzarsi nella produzione di qualche bene, ottenendone una quantità maggiore di quella strettamente necessaria per il consumo personale, al fine di cedere le quantità in eccedenza per ottenere altri beni. Con la specializzazione produttiva (primi allevamenti, prime zone agricole, primi pescatori) si originano cosė quattro rilevanti fenomeni: il primo, fondamentale per la "nostra" impresa, è quello della separazione tra "produzione" e "consumo": l'uomo non produce direttamente i beni di cui sente il bisogno e non consuma direttamente i beni ottenuti, ma produce beni che altri consumeranno e consuma beni che altri hanno prodotto; il secondo, conseguenza del primo, è quello della diffusione dello "scambio"; il terzo è quello della creazione della moneta come mezzo di scambio e, soprattutto, come strumento per trasferire nel tempo la capacità di acquisto; il quarto è quello della sostituzione della moneta ai beni quale oggetto immediato del calcolo economico: la moneta diventa essa stessa un bene da acquisire tramite il lavoro e la produzione; spesso diventa "il" bene (da mezzo a fine)[10]. La produzione, quindi, subisce un mutamento radicale: da processo volto a ottenere beni dotati di utilità - cioè di attitudine a soddisfare i bisogni e le aspirazioni - si trasforma in processo finalizzato all'ottenimento di beni dotati di valore, cioè di beni che devono essere richiesti, desiderati da qualche consumatore; grazie, poi, alla moneta il valore dei beni viene quantificato tramite i prezzi; con la produzione non si ottengono beni solamente utili, ma ricchezza, cioè beni dotati di valore monetariamente quantificabile. L'uomo comincia ad aspirare al benessere del quale la disponibilità di moneta, più ancora che quella di beni, diventa spesso l'indice ritenuto più significativo[11]. Ecco nascere, di conseguenza, l'azienda di produzione quale sistema di trasformazione, nel quale vengono attuate due fondamentali trasformazioni:
Ma per un postulato fondamentale - l'uomo è programmatore - gli individui non consumano tutta la ricchezza disponibile. Con la diffusione della produzione, con l'uso di corrispondere remunerazioni monetarie, si facilita il risparmio e l'investimento; ciò ha come conseguenza la formazione dei capitali; in origine questi erano stock di beni dotati di valore, derivati da lavoro passato, accumulato in manufatti, sottratti al consumo e reimmessi nei processi di produzione; poi, grazie alla capacità della moneta a trasferire nel tempo i valori si sono trasformati in capitali monetari - da accumulare e da custodire. Con la disponibilità di tali capitali, le aziende di produzione possono cosė costituirsi più facilmente, ampliarsi velocemente e perfino moltiplicarsi e ben presto si forma un numero sufficiente di aziende di produzione, per dare vita al sistema combinatorio delle unità di produzione e per consentire a questo di svilupparsi. LA FUNZIONE DELLE AZIENDE DI PRODUZIONE. L'IPOTESI DELLA PRODUTTIVITÀ CRESCENTE Abbiamo esaminato la nascita delle aziende di produzione; ma qual è la loro funzione? Per coglierla, dobbiamo considerare il fenomeno caratteristico della produzione: la produttività. Tale fenomeno, che perfettamente riflette il postulato della razionalità, è la tendenza ad aumentare il rapporto tra la quantità di ricchezza ottenuta e la quantità di lavoro impiegato per ottenerla (in termini generali, la produttività - media - si può misurare proprio tramite il rapporto tra la quantità - o il valore, se quantificato - di prodotti ottenuti e la quantità di lavoro impiegato). Dalla produttività dipende il costo di produzione: quanto più elevata è la produttività, tanto più basso risulta il costo di produzione. La produttività allora altro non è se non la misura del grado di efficienza dell'azienda di produzione intesa quale sistema di trasformazione produttiva (o, meglio, la produttività è funzione del grado di efficienza della trasformazione produttiva di lavoro in produzioni). Da queste semplici considerazioni emerge immediatamente che la produzione - intesa quale fenomeno economico - si manifesta solo se il "produttore" - tramite l'azienda di produzione - riesce ad abbassare il costo di produzione al di sotto dei limiti del costo di autoproduzione degli altri soggetti "consumatori", cioè se si manifesta produttività maggiore nella produzione rispetto a quella dell'autoproduzione[12]. Nel sistema combinatorio delle aziende di produzione, tuttavia, ciascuna azienda può vivere - e in ciò si manifesta la teleonomia endogena - se produce con livelli di produttività non inferiori a quelli delle altre aziende; e ogni azienda di produzione, anzi, "cerca" di perdurare, tentando di migliorare la propria efficienza, quindi i livelli di produttività. Possiamo ora renderci conto di quale sia stata, sia e, molto probabilmente, sarà la funzione - cioè la teleonomia esogena - dell'azienda di produzione e della produzione stessa: ottenere livelli sempre più elevati di produttività. Il microcomportamento di ogni azienda di produzione - cercare di conseguire livelli di produttività, quindi di efficienza, sempre più alti - determina il macrocomportamento dell'intero sistema combinatorio di produzione: aumentare la produttività generale del sistema. Il fenomeno dell'aumento della produttività diventa il fenomeno dominante dell'intero scenario economico; è istituzionalizzato; tanto che non esiterei a tradurlo in una vera e propria ipotesi teorica circa le modalità operative del comportamento economico dell'uomo: l' ipotesi della produttività crescente, secondo la quale il comportamento economico nella produzione tende a conseguire sempre maggiore produttività, ma è governato, esso stesso, dal continuo incremento della produttività[13]. L'incremento della produttività si manifesta non solo tramite l'aumento della ricchezza e la sua diffusione, il miglioramento della qualità e della varietà dei prodotti, il passaggio da una economia che soddisfa bisogni ad un'altra che soddisfa le aspirazioni, ma anche e, forse, soprattutto, nella progressiva riduzione del tempo medio di lavoro e nel miglioramento delle condizioni di lavoro; solo un secolo fa la riduzione della giornata lavorativa a 12 ore per sei giorni la settimana - e l'ulteriore riduzione a 10 ore per i fanciulli - sembrava una grande conquista sociale; oggi, nei paesi progrediti si punta alla settimana lavorativa di 7 ore per 5 giorni la settimana (e il part-time si diffonde sempre più) e l'obbligo scolastico arriva fino a 14 anni. Forse il problema di domani sarà quello di gestire il tempo libero ..., ma su tale aspetto ritornerò più oltre. SPIEGARE LA PRODUTTIVITÀ. I FATTORI DELLA PRODUTTIVITÀ Una domanda si presenta, però, spontanea: da cosa dipende la produttività? Se definiamo "fattori della produttività" gli elementi o i fenomeni che possono aumentarla, possiamo renderci conto che i "fattori della produttività" possono essere raggruppati in tre classi:
Certamente il primo fattore della produttività è stata la fertilità naturale del suolo - dai territori di caccia ai luoghi di pesca, dalle località favorite dalla neve e dal sole per il turismo a quelle nelle quali abbondava uranio o petrolio -, tanto che, in conseguenza di tale fattore sono nate le due più radicate istituzioni di tutti i luoghi e di tutte le epoche: la proprietà e l'eredità. L'osservazione empirica dimostra che dove l'economia è basata sull'autoproduzione la proprietà è inesistente o è limitata ai pochi attrezzi di produzione; non vi era proprietà degli ambienti naturali tra i Pellerossa, prima del contatto con l'Uomo bianco, cosė come non esiste la proprietà tra gli attuali Pigmei, se si eccettua quella dei territori (proprietà vantata dalla tribù e non dai singoli) e degli attrezzi necessari per l'autoproduzione e per i processi di consumo. Non vi è proprietà personale anche nell'ambito delle comunità che perseguono fini esclusivamente salvifici, come nei monasteri di clausura o nelle comunità buddiste. Ma l'idea stessa di proprietà è diffusa oggi in ogni settore ("Non entrare nel mio studio e non usare il mio computer", dice l'impiegato, sebbene la proprietà vantata non gli pertenga ...) e spesso si confonde, o si somma, con l'idea di "appartenenza" (Il "mio" istituto, la "mia" fabbrica, il "mio" bidello, il "mio" fattorino ...). Dalla fertilità hanno avuto e hanno tuttora genesi grandi capitali (da quelli che hanno reso possibile la costruzione delle piramidi ai petrodollari). Anche oggi la ricerca della fertilità assume aspetti facilmente osservabili: gli studi sull'energia inesauribile,le sperimentazioni biologiche e di bioingegneria per selezionare - o addirittura creare - organismi vegetali e animali commestibili ad alte rese, ... L'abilità contende alla fertilità il primato della prima miccia della produttività la suddivisione delle funzioni produttive -caccia, pesca, raccolta di frutti, e cosė via - è stata la conseguenza delle diverse abilità degli individui. L'abilità portò, quindi, alla specializzazione e alla ricerca della riservatezza nella trasmissibilità delle abilità acquisibili: dalle botteghe di arti e mestieri, ai corsi postuniversitari, dalle corporazioni agli Uffici brevetti. Le attrezzature - artificiale espansione del limitato hardware rappresentato dal corpo umano - sono una scoperta antica (dalla prima roccia levigata all'aratro di legno), ma il loro impiego massiccio nelle aziende di produzione data dalla Rivoluzione industriale; e da questa non sono passate più di 10 generazioni. L'esigenza di lavoro attrezzato ha dato notevole impulso, se non origine, alla ricerca tecnologica e, correlatamente, alla ricerca scientifica, con una crescita esponenziale di scoperte e di invenzioni. L'ultimo sforzo, in ordine di tempo, per aumentare la produttività è l'organizzazione del lavoro (degli atti di lavoro) e del lavoratore (dei soggetti che prestano il lavoro). L'organizzazione è il fenomeno moderno più sorprendente; essa consente di creare notevoli sinergie produttive, in quanto porta alla formazione di sistemi operatori formati da individui preposti all'attuazione di funzioni specialistiche: le strutture organizzative (o organiche). L'organizzazione riunisce diverse abilità, specializzandole in funzioni svolte da organi che sopravvivono, pur con il continuo ricambio; l'abilità si trasmette e permane anche oltre i limiti della vita dei singoli. L'organizzazione crea regole il cui semplice rispetto è sufficiente per fare progredire la produttività l'attività produttiva è spersonalizzata; non è più sviluppata dall'uomo come singolo ma dalla struttura organizzativa aziendale nella quale l'uomo opera secondo le regole del lavoro organizzato. L'organizzazione sviluppa il coordinamento, la collaborazione, l'apprendimento (trasmissione dell'informazione), l'incentivazione e l'emulazione; tali elementi, uniti, si traducono nell'identificazione del singolo nell'organizzazione di cui è parte e nella ricerca del successo dell'organizzazione quale condizione per continuare a farvi parte. La logica del lavoro organizzato, inoltre, è tale che la produttività si alimenta anche del contributo di coloro che entrano a fare parte dell'organizzazione motivati solo dalla retribuzione o perché desiderano svolgere un lavoro piacevole o perché vogliono, più semplicemente, trovare gratificazione sociale. Ma l'organizzazione ha come conseguenza quello dell'inevitabile (e più o meno accentuato) progressivo distacco tra atto di lavoro e risultato produttivo. Per questo occorre risolvere il problema dell'incentivazione alla partecipazione dell'individuo lavoratore all'organizzazione produttiva. Subentrano quindi gli ultimi due fattori della produttività, fattori psicologici, endogeni. Nessun individuo, infatti, presta il proprio lavoro, malgrado un ambiente fertile, un'innata o acquisita abilità, una congrua attrezzatura e un'efficiente organizzazione, se non è spinto in ciò da prospettive di vantaggio, di gratificazione e se, a posteriori, queste prospettive non si realizzano. Motivazione e appagamento sono i fattori della produttività più difficili da conseguire; nell'organizzazione essi possono trovare adeguato sviluppo, ma mai la coercizione ha potuto sostituirsi durevolmente ad essi[14]. I RISCHI DELLA PRODUZIONE. LE IMPRESE Nelle precedenti analisi ho sempre parlato di aziende di produzione quali unità economiche in cui si sviluppa il lavoro organizzato, per attuare le trasformazioni produttive con efficienza. Ma cosa sono le imprese? Si identificano con le aziende di produzione? Definiamo imprese le aziende di produzione che presentano i seguenti connotati:
Quando non siano presenti tutti questi caratteri l'azienda di produzione non può definirsi impresa. In particolare, non sono imprese quelle che operano senza poter autonomamente porre in essere le operazioni di gestione necessarie per affrontare il rischio della domanda e il rischio della concorrenza. Analizziamo il rischio della domanda. Poiché abbiamo definito la produzione come l'attività tramite la quale si ottengono beni o servizi da cedere ad altre aziende consumatrici, appare chiaro che le aziende di produzione possono continuare a vivere solo se riescono ad avere una domanda sufficiente per i loro prodotti; il rischio della domanda è un rischio di natura economica, in quanto non è sufficiente trovare soggetti che richiedano i beni prodotti, perché li ritengono utili, ma è necessario che tali soggetti attribuiscano ai beni un valore superiore a quello dei fattori che l'azienda ha consumato nei processi produttivi, vale a dire, al costo di produzione. Il rischio della domanda è correlato al grado di libertà del consumatore, cioè alla possibilità di questi di formarsi proprie scale di preferenza e di disporre delle informazioni necessarie per scegliere liberamente tra i prodotti offerti dalle diverse aziende di produzione. Il rischio della concorrenza è, invece, connesso al fatto che ogni azienda di produzione è sottoposta alla concorrenza di altre aziende che possono offrire gli stessi prodotti, o prodotti analoghi, a condizioni più favorevoli. Il rischio della concorrenza è correlato al grado di libertà di iniziativa economica, cioè alla possibilità offerta a chiunque, di istituire un'azienda di produzione per soddisfare i bisogni e le aspirazioni secondo le scale di preferenza dei consumatori (o per incidere su tali scale). I CARATTERI DELL'IMPRESA MODERNA: L'IMPRESA QUALE TRASFORMATORE FINANZIARIO E MANAGERIALE Le imprese, oggi, pur rispondendo alla stessa logica dell'impresa nel Medio Evo e dell'impresa durante la Rivoluzione industriale, presentano due connotati di rilievo che è opportuno sottolineare:
Le prime imprese operavano con capitali scarsi che rappresentavano un investimento patrimoniale attuato e gestito "a scopo di lucro", e direttamente controllato da un soggetto capitalista; da esse hanno avuto genesi le grandi dinastie industriali[18]. Grazie al raggruppamento in ampi capitali di modeste quote di risparmio monetario, realizzate da un elevato numero di aziende di consumo; grazie all'investimento di questi, reso possibile dall'istituto della società per azioni, da un lato, e dall'intermediazione finanziaria, dall'altro; grazie, altresė, all'effetto della "naturale" espansione del capitale per reinvestimento continuo del cash flow operativo da utili e da ammortamenti (effetto Lhoman-Ruchti), e dell'autofinanziamento (utili non distribuiti), i capitali sono diventati relativamente abbondanti - e fluiscono a livello internazionale con flussi inarrestabili - cosicché il vero problema, oggi, per le imprese economicamente "sane" (dotate di autonoma economicità e di condizioni per mantenerla nel tempo), non è più tanto quello di produrre ... quanto quello di mantenere l'integrità dei capitali in esse investiti ...; e un capitale si mantiene integro nel tempo, se conserva il suo potere di acquisto e se offre una remunerazione finanziaria (interesse o dividendo) almeno pari a quella media ottenibile da altri investimenti, in condizioni di analogo rischio. Poiché i capitali fruttano grazie ai profitti, il profitto non è solo una conseguenza dell'attività efficiente di impresa; livelli minimi di profitto costituiscono la condizione di esistenza della stessa impresa, in quanto sono condizione per conservare l'integrità dei capitali in essa investiti. Diventano, per questo, gli obiettivi direzionali da conseguire tramite la ricerca di convenienti produzioni[19]. Il ciclo, come possiamo osservare, si è invertito: quando il capitale era relativamente scarso, si ricercava il capitale per attuare e mantenere la produzione; con una relativa disponibilità di capitale durevolmente investito nell'impresa (anzi, in genere non disinvestibile), sono, invece, le produzioni economicamente redditizie a rendersi necessarie per mantenere investiti i capitali. La conseguenza di ciò è che le imprese tendono a diventare trasformatori finanziari, cioè "contenitori" di capitali che di volta in volta investono e disinvestono in produzioni dotate di alto rapporto ricavi/costi (rapporto di efficienza economica), per ottenere una remunerazione adeguata. Con l'ampliarsi delle dimensioni delle imprese (effetto dell'ipotesi della produttività crescente, del quale non possiamo dare ora dimostrazione) è cresciuto anche il fabbisogno, quindi il potere, dei manager. Con l'intervento dei manager distinti dai "padroni" che amministrano capitali di soggetti che non hanno il potere di intervenire nella gestione, si è venuto manifestando il ben noto fenomeno della formale separazione tra proprietà del capitale e controllo dell'impresa. Le imprese, da strumenti per produrre remunerazioni e profitto (trasformatori finanziari), sono diventate organizzazioni nelle quali diversi gruppi soddisfano i propri interessi istituzionali; organizzazioni che nella produzione di remunerazioni e di profitto vedono la condizione di esistenza nel sistema combinatorio. Ecco il secondo degli aspetti di rilievo: le imprese diventano sistemi teleologici di trasformazione imprenditoriale, cioè sistemi (organizzazioni) aventi obiettivi autonomi di redditività, in grado di produrre comportamenti riferibili a unità dotate di capacità di esistenza autonoma, di potere decisorio e di controllo interno volto al conseguimento dei livelli di efficienza necessari per la loro conservazione; le imprese - in quanto organizzazioni autonome - diventano sistemi alterizzati rispetto ai fattori della produzione e, in particolare, rispetto ai portatori di "capitali di rischio"[20]. Ma, fatto ancora più rilevante, le imprese diventano sistemi dotati veramente di teleonomia endogena che tendono ad alimentare con la loro teleologia "necessariamente" orientata all'efficienza. Vediamo come. Abbiamo pocanzi osservato come le imprese possano sempre più essere considerate trasformatori finanziari: strumenti per l'investimento di capitali; capitali che il management deve mantenere integri economicamente, mediante un continuo flusso di investimenti e di disinvestimenti di quei capitali a supporto di attività produttive con certo grado di rischio. In termini tecnici, ciò significa che esse si trasformano sempre più in "portafogli di business"; cioè in "contenitori" di attività produttive di dati prodotti per dati mercati, allo scopo di ottenere profitti da ciascun business. Il management, sulla base di un accurato sistema di informazioni e di previsioni, accettando un dato grado di rischio, continuamente modifica la composizione dei business in portafoglio, abbandonando quelli a bassa redditività per altri nuovi con redditività più elevata. La specie di produzione attuata in ciascun business non è molto rilevante per la trasformazione imprenditoriale e finanziaria: alle auto si possono affiancare i quotidiani o gli ospedali; ai computer le imprese dell'alimentazione; all'agricoltura la chimica; e cosė via. Nulla più dei grandi gruppi diversificati rende meglio l'idea dell'impresa quale portafoglio di business. Ma non basta: nell'ottica finanziaria ogni business non è solo importante in quanto frutta un reddito annuo, ma in quanto può essere ceduto, fruttando cosė un guadagno in linea capitale. Ecco nascere una nuova figura di operatore economico: il "negoziatore di business" il cui scopo è di realizzare un guadagno in linea capitale; figura nota come "imprenditore-finanziere". IL RUOLO DELL'IMPRESA NELL'ECONOMIA CONTEMPORANEA Ed ecco, finalmente, delinearsi il ruolo dell'impresa moderna nell'economia contemporanea. L'impresa rappresenta la forma che storicamente ha dato risposta alle motivazioni della produzione: con il profitto l'impresa produce ricchezza, e i soggetti che beneficiano del profitto possono realizzare un maggiore e/o migliore soddisfacimento dei bisogni. L'analisi storica dimostra che il profitto (al pari della rendita oggi trasformata in profitto da fertilità) rappresenta una delle più potenti motivazioni della produzione, quindi uno dei più importanti fattori "endogeni" della produttività. Il profitto, da un lato, spinge gli individui a rischiare i loro capitali, investendoli nelle attività produttive; dall'altro, è la più forte motivazione per la creazione di nuovi business. Il profitto diventa tanto mezzo per garantire la remunerazione e la conservazione del capitale quanto strumento per aumentare le retribuzioni del lavoro (dai cottimi ai recenti accordi FIAT e OLIVETTI) e per produrre interessi soddisfacenti al capitale di prestito (dalle obbligazioni indicizzate ai "futures")[21]. Come abbiamo appena osservato, libertà del consumatore e concorrenza tra produttori garantiscono che il profitto possa generarsi solo a condizione che le imprese riescano a fare propri i fattori della produttività che diventano, quindi, anche fattori essenziali del profitto; e ciò rende vitale per le imprese inventare nuovi business, esplorare nuovi mercati per prodotti vecchi o inventare nuovi prodotti per bisogni vecchi (celle solari per riscaldare l'acqua e cipolline alla peperlizia) e per bisogni nuovi (depuratori antinquinamento); e soprattutto beni per creare nuove aspirazioni .. (dai sedili delle automobili con regolazione automatica ai televisori a "tutta parete"). L'esigenza del profitto obbliga l'impresa a razionalizzare i processi tecnici di produzione e di controllo di gestione (dai Decision Support System alla produzione Just-In-Time), favorendo la ricerca scientifica applicata e l'innovazione tecnologica, migliorando la qualità del prodotto e riducendone il prezzo, consentendo l'espansione dell'efficienza nell'intero sistema combinatorio. La teleonomia endogena dell'impresa considerata quale portafoglio di business impone di mantenere integro e di accrescere il capitale investito, con espansione necessaria delle dimensioni aziendali. La sua teleologia risiede nella capacità del management di decidere autonomamente sulla composizione del portafoglio di business, sulla base di ipotizzati scenari ambientali e della soglia di rischio ritenuta accettabile. Ma per sviluppare livelli adeguati di profitto, al fine di mantenersi nel sistema combinatorio - che tende a diventare internazionale, se non "globale" -, le imprese, quali sistemi di trasformazione imprenditoriale, possono, anzi devono agire secondo una di queste due vie:
La seconda via, aumento dei prezzi di vendita o riduzione di quelli di acquisto, è difficilmente percorribile: libertà del consumatore, leggi antitrust volte a garantire libertà di iniziativa, incentivi economici alla ristrutturazione, associazionismo di lavoratori e di consumatori, e cosė via impediscono di percorrerla a lungo. Non rimane che la prima via, la più salda, la via che l'ipotesi della produttività crescente predice come duratura: la ricerca dell'economicità dei business tramite l'aumento dell'efficienza interna, della produttività. "Mai, in un altro momento della storia, il problema della produttività ha sollevato tanto interesse. Fino a qualche tempo fa era solo un problema economico adesso è diventato un serio problema politico perché è uno degli aspetti critici dei rapporti commerciali fra le nazioni, A questo punto, saremmo veramente lieti che il sistema di produzione Toyota, che noi abbiamo creato, potesse essere di utilità per la soluzione del problema della produttività.": parole, queste, di TAIICHI OHNO, l'ideatore del sistema della produzione just-in-time[23]. E chi non ha un po' di timore nella produttività giapponese? Ma eccoci ancora una volta a fare i conti con il sistema combinatorio: la ricerca dell'efficienza interna, l'aumento della produttività implica una corsa a inseguimento, un feedback infinito tra le imprese per sopravvivere[24]. Ma tale ricerca dell'efficienza è causa o effetto della legge della produttività crescente? Un interrogativo appare, però, cruciale: perché l'uomo desidera la ricchezza, e sempre maggiore ricchezza, della quale il profitto non è oggi che una delle più potenti forme di impulso e di motivazione per ottenerla tramite l'impresa? Cercare di spiegare le motivazioni per le quali la "ricchezza" è ambita e il profitto è desiderato esulano, però, dall'universo osservativo dell'economia aziendale; è come domandarsi perché possa piacere un'automobile da 300 all'ora o un orologio da 100 milioni o un quadro pagato 100 miliardi ...: non certo solo perché ... soddisfano meglio i bisogni di trasporto, di puntualità e di occupazione del tempo libero! Sono motivazioni psicologiche, più che fisiologiche, e rientrano nel campo di indagine della sociologia e dell'antropologia; ma sono motivazioni molto potenti, se già 20 secoli fa ... era più facile che un cammello passasse dalla cruna di un ago che un ricco entrasse nel regno dei Cieli ..., a meno che ... il ricco non avesse acquisito la ricchezza investendo i talenti che il "Signore" gli aveva affidato ... e solo una forte illuminazione interiore potrà produrre altri ... San Francesco. CONCLUSIONE. IL FUTURO DELL'IMPRESA E DELLA PRODUTTIVITÀ Mi avvio alla conclusione riprendendo gli interrogativi iniziali:
Lascio a voi, ora, derivare le risposte. L'incremento della produttività è nella logica stessa del fenomeno produttivo, ma la spinta rappresentata dalla ricerca del benessere, della ricchezza e del profitto accelera il fenomeno, e è facile comprendere come l'ineguale produttività derivi dal diverso peso con cui operano i fattori della produttività e, in particolare, a mio parere, i fattori dell'organizzazione e della motivazione. Certo la produzione in forma di impresa è considerata oggi ancora utile in quanto con essa si realizza la produzione efficiente di remunerazioni; e proprio in ciò risiede la forza teleonomico endogena che spinge le imprese - e più in generale le aziende di produzione - a conservarsi nel sistema economico, tramite la loro teleologia; la produzione in forma di impresa, inoltre, consente di aumentare la produttività del sistema, con incremento del benessere generale; e in ciò risiede la forza teleonomica esogena che spinge il sistema a cercare di mantenere, espandere, e - in alcuni casi - introdurre la produzione in forma di impresa. Per quanto grande sia la ricchezza prodotta, per quanto ampie siano quantità e qualità dei bisogni che l'"uomo produttivo" riesce a soddisfare, la logica della produzione vuole che la produttività progredisca ulteriormente, e la logica della ricchezza, in particolare, rende tale progresso vitale per il sistema economico e per l'intera Umanità. L'assioma dell'insaziabilità garantisce al sistema l'energia necessaria per ulteriore progresso. E l'impresa sembra esserne lo strumento, almeno fino a quando altre forme di aziende di produzione non riusciranno ad attuare le trasformazioni produttive e economiche dando sufficiente motivazione per ottenere efficienza dal lavoro e dall'impiego del capitale, nell'ambito di un'organizzazione controllante, con il consenso che genera collaborazione, e non controllata. Ma per questo è necessario che l'impresa abbia esaurito la sua ragione d'essere quale elemento propulsivo della produttività. Quando avverrà, se avverrà, tale momento, non è dato predire. Al contrario, la teleonomia esogena dell'impresa è più forte che mai. La ricchezza, è vero, non è di tutti; è distribuita, oggi, in forme e misure troppo disuguali; l'emisfero nord opulento e il sud povero sono una dolorosa realtà che accentua le tensioni sociali. Ma la ricchezza è inevitabilmente destinata a diffondersi, anche se l'espansione della produttività è un fenomeno ineguale e, per di più, iniziato, con qualche consistenza solo da poche generazioni[25]. Forse tra alcune generazioni il globo terracqueo potrebbe trasformarsi in un'immensa azienda produttiva, atta a produrre a beneficio di tutti, la cui logica operativa potrebbe anche essere differente da quella dell'impresa. Ma esprimere una previsione oggi sulla futura diffusione della ricchezza e sul futuro destino dell'impresa tra 100 anni o anche solo tra una generazione, sarebbe come pretendere di predire lo stato del tempo meteorologico tra un anno semplicemente osservando...per un minuto il moto delle nubi dalla finestra di casa nostra[26]. La ricerca scientifica e il progresso tecnologico, resi possibili e necessari dall'esigenza di sviluppo della produttività, sono giunti a livelli tali che tutto lascia prevedere la possibilità dell'incremento estremo della produttività che si manifesterà con il venir meno della necessità della maggior parte del lavoro umano, e molte produzioni tenderanno ad un ideale "a costo zero" (oggi, con pochi biscotti si ha in regalo una radio; quante marmellate dovremo mangiare, domani, per avere in regalo un computer?). Sul piano teorico, Turing e Von Neumann hanno dimostrato la possibilità di realizzare automi autoreplicanti. Sul piano applicativo, il progresso nella scienza e nell'ingegneria dei sistemi ha portato alla creazione di robot in grado di svolgere attività complesse, guidate da sistemi, nemmeno troppo sofisticati, di elaborazione elettronica. L'Intelligenza artificiale non fa fatica a convincerci che non è fantasia ritenere fattibile la produzione di robot a mezzo di robot, in una catena tecnologica a circuito chiuso, e l'impiego di tali robot in sistemi di produzione automatizzata, con controllo cibernetico. Già oggi nelle ampie colture nordamericane si ara, si semina e si trebbia quasi senza intervento umano, con macchine agricole guidate da piste magnetiche interrate; già oggi le grandi navi solcano gli oceani guidate da satelliti, e già oggi ci sono esposizioni internazionali di fabbriche automatiche; e i robot hanno appena iniziato ad affacciarsi nella trasformazione produttiva! Forse il vero problema del domani sarà quello di gestire il tempo libero, massima espressione della libertà dell'uomo... Ma riuscirà l'uomo a superare la noia? A raggiungere livelli di cultura che gli consentano di abbandonare i sistemi di obnubilazione che da sempre ha ideato e che la produttività crescente rende oggi abbondanti. Ma soprattutto farà in tempo l'uomo ad arrivare a tali livelli? Come la produttività anche l'inquinamento (e, più in generale, il depauperamento dell'ecosistema) cresce, trasformando in beni scarsi le risorse fino a ieri ritenute abbondanti o autoriproducibili; e, purtroppo, la legge della produttività crescente non risparmia la produzione di armamenti, anzi si sviluppa qui più che in ogni altro settore..., come l'assioma dell'uomo teleonomico garantisce. E se anche l'inquinamento ci desse il tempo di arrivare a domani, il primo postulato del comportamento umano, nostro malgrado, afferma che l'uomo è bellicoso ... Magnifico Rettore, Eccellenze, Autorità, Colleghi, Studenti e paziente pubblico, ho concluso le mie semplici considerazioni sul tema proposto. Vi prego di non considerare queste affermazioni quali giudizi di valore. Lascio ad altre discipline giudizi di carattere morale, etico e politico; lascio ad altre forme di conoscenza trattare - in termini di giudizio - di ricchezza e povertà, di bisogni terreni o di aspirazioni verso il trascendente, di cereali e agrumi mandati al macero e di bimbi che muoiono di fame, di imprese pubbliche o private, di socializzazione e di privatizzazione, di regimi collettivistici o capitalistici, di produzioni moralmente utili o riprovevoli, di disoccupazione o inflazione, di laser e di scudi spaziali, di protezionismo e di guerre di auto e di vini ... , di uso buono o cattivo, egoistico o altruistico, privato o sociale dell'abilità, della fertilità e della tecnologia. Come ricercatore osservo e teorizzo, non giudico. Come uomo ho molte speranze, in quanto "la" scienza, in cui credo, ci dice che tutti i sistemi combinatori di natura sociale possono essere diretti verso obiettivi che politica e morale giudichino consoni allo spirito umano; la dinamica del sistema, pure alimentando i microcomportamenti dei suoi elementi, si alimenta a sua volta di tali comportamenti; è quindi possibile "governare il sistema" ponendo regole ai microcomportamenti. Anche il sistema combinatorio della produzione può essere diretto verso obiettivi voluti, ponendo regole chiare e stabili - ma, soprattutto, eque - tanto al comportamento delle unità di produzione, e delle imprese quale specie, quanto al comportamento dei consumatori. E come uomo auspico che la direzione del sistema sia illuminata o, quanto meno, umanamente razionale. Ma di una cosa sono convinto; nell'ambito dei postulati del comportamento umano, qualsivoglia regola sia posta al sistema, questo agirà o reagirà sempre secondo l'ipotesi della produttività crescente, a meno che le regole non siano tali da inibire i fattori della produttività. |
I principali argomenti trattati nella Prolusione sono stati successivamente aprofonditi in: P. Mella , Economia Aziendale,
Utet, Torino, 1992 Si rinvia anche ai seguenti siti, curati dall'Autore: EconomiAziendale2000 web |
N O T E [1]. L'ipotesi è posta secondo la logica osservativa dell'Economia Aziendale; tale disciplina, ricercando modelli e ponendo norme per il comportamento economico razionale "nelle" aziende, sviluppa, conseguentemente, modelli e norme per il comportamento efficace e efficiente "delle" aziende intese quali sistemi operatori preordinati per ottimizzare la produzione e/o il consumo della ricchezza. [2]. I sistemi combinatori sono spesso descrivibili con modelli che rappresentano le relazioni tra microcomportamenti e macrocomportamenti. Chiunque sia stato presente in un locale affollato avrà avuto modo di constatare il fenomeno del "brusio crescente": non appena il locale è sufficientemente affollato, inizia un brusio che pian piano cresce e inevitabilmente di trasforma in rumore assordante. Come si può rappresentare e spiegare tale fenomeno? È molto semplice: il locale rappresenta l'ambiente in cui opera il sistema combinatorio formato da individui che, volendo comunicare tra loro, per motivazioni personali, iniziano a parlarsi l'un l'altro, creando un brusio. Il bisbiglio è il microcomportamento di ciascuno; il brusio è l'effetto del sistema, il macrocomportamento riferibile all'unità. Il brusio - effetto del sistema - impedisce a coloro che bisbigliano di udire e di farsi udire; per questo, i presenti sono "costretti" dal sistema ad alzare la voce, ponendo in essere singoli microcomportamenti; se le voci si alzano, il brusio aumenta e le voci sono costrette ad alzarsi ancora .. fino a trasformarsi in un frastuono assordante. L'effetto del sistema, cioè il brusio, condiziona i microcomportamenti, cioè il volume di voce dei presenti, anche se ... ad evidenza, sono proprio i microcomportamenti a formare il brusio. Il sistema può essere descritto con il semplice modello seguente (si sono omessi gli indici temporali per rendere il modello più evidente):
D VOLUME VOCE DI UN SINGOLO = INTENSITÀ RUMORE + DECIBEL PER FARSI UDIRE La prima funzione descrive il microcomportamento - il singolo, per farsi udire, deve parlare con un volume di voce più alto di quello del rumore di fondo - in funzione del macrocomportamento del sistema, l'intensità del rumore di fondo. La seconda funzione descrive il macrocomportamento del sistema - il sistema produce un rumore di fondo, in funzione dei microcomportamenti; il rumore di fondo, infatti, deriva dai microcomportamenti di coloro che per farsi udire devono parlare con voce alta. Il comportamento "macro" dipende dal coefficiente di rumorosità dell'ambiente in cui il sistema "vive". In un locale con acustica pessima il coefficiente di rumorosità sarebbe superiore ad 1 e ben presto si svilupperebbe un rumore cosė assordante da costringere i singoli a smettere di parlare; arriva il silenzio! Se "per caso" qualcuno riprendesse a parlare, anche solo per dire "Uffa!", ecco che "per necessità" il rumore di fondo riprenderebbe e probabilmente il sistema combinatorio ricomincerebbe ad operare. In una sala cinematografica, dotata di pannelli fonoassorbenti, il coefficiente di rumorosità sarebbe minore di 1; se si forma un brusio, questo o cessa o si mantiene stabile a livelli accettabili. In ciò risiede la differenza tra lo schema osservativo dell'economia aziendale e quello della microeconomia. Quest'ultima studia prevalentemente il comportamento "delle" aziende quali "sistemi a scatola nera", derivando leggi di comportamento che prescindono dalla conoscenza dei "meccanismi operativi" di tali unità l'economia aziendale, invece, considera prevalentemente le unità oggetto di indagine quali "sistema a scatola bianca", quali "sistemi apribili", ricercando leggi di comportamento "nelle" aziende, onde porre modelli generali di comportamento "delle" aziende. [3]. Vorrei fare notare l'analogia con il problema dell'eliminazione degli "Enti inutili", cui si contrappone lo sforzo di questi (sembra, riuscito) di mantenersi in vita. La teleonomia endogena di tali enti (retribuzioni, potere, strumentalità per altri enti) è più forte di quella esogena. [4]. La distinzione tra bisogni e aspirazioni appare fondamentale per tentare di spiegare il comportamento economico dell'uomo. È semplice rendersi conto, con un'immediata autoanalisi, che l'uomo sente sia bisogni, cioè stati di disequilibrio psico-fisico, negativo, penoso, spiacevole, presente (o supposto) in un dato istante, che si ha necessità di eliminare o evitare, sia aspirazioni, cioè stati piacevoli da acquisire, mantenere o accrescere. Il desiderio di un vestito alla moda non deriva tanto dal bisogno di proteggerci dal freddo quanto, piuttosto, dall'aspirazione di essere ammirati; sentiamo il bisogno di un'automobile (meglio sarebbe dire che sentiamo il bisogno del trasporto), ma aspiriamo ad avere una Ferrari, anche se molte altre automobili sarebbero in grado di soddisfare lo stesso bisogno. La distinzione tra bisogno e aspirazione è difficile da attuare in modo netto, ma un criterio appare affidabile: l'intensità del bisogno decresce con il soddisfacimento, salvo ripresentarsi in tempi successivi; l'intensità dell'aspirazione, invece, aumenta con l'appagamento (per cessare, a volte, bruscamente quando sopravviene la noia). La qualità della nostra vita dipende dal numero e dalla specie dei bisogni e delle aspirazioni che possiamo soddisfare e, soprattutto, dal modo in cui riusciamo a conseguire tale soddisfacimento. Una constatazione appare evidente: mentre la maggior parte dei bisogni è comune a tutti gli esseri umani, ben più varia sembra essere la distribuzione delle aspirazioni. Fino a pochi decenni fa, nei sistemi economici che oggi consideriamo progrediti l'uomo riusciva a soddisfare solo i bisogni primari di alimentazione, vestiario, protezione dalle malattie e solo un numero limitato di persone riusciva a conseguire le aspirazioni di cultura, arte e svago che oggi sono ormai alla portata di tutti. La qualità della nostra vita aumenta sempre più i bisogni fondamentali per la nostra esistenza risultano soddisfatti, e sempre più ampio spazio è lasciato per il conseguimento delle nostre aspirazioni. Oggi quasi ovunque, nei Paesi progrediti, acqua calda e fredda scendono aprendo un rubinetto e non occorre più trasportarla dal pozzo con i secchi e riscaldarla sulla stufa; la luce è disponibile ovunque con la semplice pressione di un pulsante; possiamo comunicare pressoché in tutto il mondo semplicemente componendo un numero telefonico; i bisogni fondamentali sono un ricordo; ciononostante l'uomo vuole ulteriormente progredire e, quando i bisogni sono soddisfatti, ecco sorgere le aspirazioni: vogliamo il miscelatore dell'acqua calda e fredda, desideriamo i sensori che consentono di accendere la luce semplicemente al suono della nostra voce e il videotelefono. Se la neve non cade, vi sono i cannoni sparaneve; se l'estate è parca di sole, ecco le piscine coperte anche al mare, con acqua salata; le aspirazioni crescono non solo in intensità, ma anche in numero e in qualità. Solo cataclismi naturali (terremoti, inondazioni, ecc.) o umani (inquinamento chimico o nucleare, ecc.) sembrano in grado di farci ricordare anche l'esistenza di bisogni spesso dimenticati: case, strade, cibi non contaminati. [5]. In termini molto semplici possiamo affermare che si ha un comportamento economico quando l'uomo pone in essere attività volte al soddisfacimento dei bisogni o all'appagamento delle aspirazioni. Per soddisfare i bisogni e le aspirazioni, è necessario sviluppare un lavoro, normalmente al fine di ottenere e impiegare beni (materiali o immateriali, o servizi), ove per lavoro si può intendere ogni prestazione umana penosa - che l'uomo, potendolo, vorrebbe, cioè, evitare - tramite la quale i beni possono essere ottenuti e applicati per il soddisfacimento delle esigenze umane. Nel vocabolario tecnico dell'economia, l'attività volta all'"ottenimento" dei beni e dei servizi, tramite applicazione di lavoro, si denomina PRODUZIONE; quella volta alla loro "applicazione" ai bisogni si denomina CONSUMO. CONSUMO e PRODUZIONE sono, perciò, le attività economiche fondamentali dell'uomo; rappresentano le attività con le quali può soddisfare le proprie esigenze. Mentre le attività di produzione e di consumo sono "osservabili", i moventi economici - bisogni e aspirazioni - sono elementi "intenzionali" e non possono essere osservati direttamente, ma solo supposti a seguito dell'osservazione dei comportamenti dell'uomo; è necessario, comunque, ipotizzare la loro esistenza al di là della semplice verifica per autoosservazione. [6]. Risparmio e investimento sono attività ben distinte, anche se l'investimento presuppone il risparmio e il risparmio (monetario), indirettamente, si trasforma in investimento grazie agli intermediari finanziari. Il risparmio è l'attività con la quale l'uomo non consuma interamente i beni di cui dispone per il soddisfacimento dei bisogni attuali, ma programma di destinarne una parte per i bisogni futuri. Il risparmio è mancato consumo attuale in vista di un consumo futuro. L'investimento è l'attività economica consistente nel rinunciare al consumo di dati beni oggi al fine di ottenere una quantità di beni maggiore in futuro. L'investimento richiede un sacrificio attuale, per ottenere un maggiore beneficio futuro, con un grado più o meno elevato di rischio. Si risparmia un po' di frumento per i bisogni futuri e una parte di questo è investito in nuove coltivazioni. Si risparmia una parte di reddito per acquistare un'abitazione oppure si investe una parte di reddito per dare vita ad una società per attivare una impresa. [7]. Produzione e consumo non sono - di norma - svolte da individui singoli, ma da individui organizzati e specializzati che formano le aziende. Le aziende sono le unità economiche elementari, nelle quali si sviluppano autonomamente e durevolmente le attività economiche fondamentali della produzione e del consumo della ricchezza. Nelle aziende si presta il lavoro per produrre i beni (dalle prime forme di caccia collettiva alle coltivazioni organizzate) o per consumarli per soddisfare i bisogni e conseguire le aspirazioni (dal nucleo familiare alla tribù). È immediato allora distinguere tra AZIENDE DI PRODUZIONE e AZIENDE DI CONSUMO. Accanto alle aziende di produzione e di consumo la realtà ci consente di osservare anche le AZIENDE COMPOSTE PUBBLICHE; sono aziende pubbliche, in quanto la loro attività è sviluppata dagli Enti Pubblici Territoriali (Stato, Regioni, Province, Comuni) direttamente o tramite aziende da essi gestite; sono aziende composte perché sviluppano contemporaneamente un'attività di produzione (ottengono, per esempio, i servizi dell'istruzione, del trasporto, della viabilità, della giustizia) e di consumo (soddisfano i bisogni collettivi di istruzione, di trasporto, di viabilità, protezione, giustizia, e cosė via). [8]. Ecco delinearsi la catena delle attività economiche dell'uomo che risulta composta da cinque anelli: PRODUZIONE e CONSUMO costituiscono le attività economiche fondamentali; SCAMBIO, RISPARMIO e INVESTIMENTO sono attività economiche complementari. [9]. L'utilità è una dimensione quali-quantitativa associata ai beni e ai servizi che si identifica nella loro attitudine a soddisfare dati bisogni o a conseguire date aspirazioni; l'acqua potabile, per esempio, è utile per soddisfare il bisogno della sete; ma al cuoco è utile per fare bollire i cibi; l'oro e i diamanti sono utili per soddisfare le aspirazioni di prestigio ma si potrebbe avere bisogno del diamante per incidere una lastra di vetro o dell'oro per costruire un conduttore elettrico di elevate prestazioni. L'utilità è dimensione quantitativa nei limiti in cui si accetta qualche procedura ritenuta efficiente di metrizzazione; altrimenti rimane dimensione qualitativa ordinale. Il valore è una dimensione quantitativa associata ai beni o ai servizi che si identifica nella loro attitudine ad essere "domandati", cioè "ambiti", "richiesti" o "ottenuti" da qualche soggetto; il "valore" non si identifica con l'"utilità"; esso dipende:
L'oro, ad esempio, pur avendo sempre la stessa utilità, qualora sia impiegato quale mezzo di scambio, assume diverso valore per l'avaro - che aspira ad accumularne in quantità sempre maggiori o per il fraticello che ha fatto voto di povertà. [10]. Anche la relazione tra lavoro e bisogni si allenta in quanto tra i due fenomeni si inserisce la moneta che allunga la catena del processo economico; da: il processo diventa: Non vengono più evidenziate, perciò, le relazioni immediate tra lavoro e risultati produttivi in termini di beni, e si percepiscono solo quelle tra lavoro e remunerazioni monetarie, dimenticando normalmente il fatto che il lavoro prestato è sempre, comunque, inferiore al costo di autoproduzione dei beni che con esso il lavoratore potrebbe ottenere. [11]. L'"avaro" - che per accumulare "ricchezza" non soddisfa i bisogni più elementari - è il modello emblematico di quanto sia potente l'aspirazione alla "ricchezza" monetaria; d'altra parte, il collezionista - che per acquisire un "pezzo unico" è disposto a cedere ogni suo capitale e perfino ad indebitarsi per tutta la vita, vivendo nella più assoluta indigenza, pur di potere ammirare il suo "tesoro" - rappresenta il modello emblematico di quanto sia potente l'aspirazione alla "ricchezza" non monetaria. [12]. Da queste considerazioni emerge immediatamente che la produzione - intesa quale fenomeno economico - si manifesta solo se:
La condizione a) asserisce che, in generale, la produzione si manifesta se C(B) < CA(B), [1] avendo indicato con C(B) il costo di produzione di un dato bene B e con CA(B) il costo di autoproduzione di quel bene, supponendo altresė che il costo di autoproduzione sia uguale per tutti i soggetti (se fosse minore per qualche soggetto, si rivelerebbe conveniente la produzione da parte di quel soggetto). Se supponiamo un'economia caratterizzata dal baratto quale forma di scambio, la differenza tra il costo di autoproduzione e quello di produzione deriva dalla maggiore produttività del lavoro impiegato nella produzione da parte del produttore, rispetto a quello impiegato nell'autoproduzione da parte delle aziende di consumo. Definiamo "differenziale di produttività" o, più semplicemente, vantaggio di produttività totale della produzione sviluppata nel processo produttivo volto ad ottenere B, la differenza: CA(B) - C(B) = P(B) [2] Quando un dato processo di produzione sviluppa un differenziale di produttività, può essere conveniente istituzionalizzare quel processo nell'ambito di date unità economiche, nelle quali il lavoro, anziché all'autoproduzione per il consumo finale, è destinato alla produzione per ottenere beni da scambiare con altre unità nascono le aziende di produzione come strumenti per produrre. Consideriamo ora la convenienza tra due scambisti X e Y allo scambio dei beni B' e B"; B' prodotto da X e B" da Y. Verificata la condizione di conseguimento di un differenziale di produttività, lo scambio si rivela conveniente per il soggetto scambista X se può attuarsi ad una "ragione di scambio" (prezzo, se lo scambio è monetario), p, tale che: C(B') < p < U(B"), [3] ove C(B') indica il costo di produzione del processo produttivo necessario per ottenere il bene B' ceduto nello scambio e U(B") indica l'utilità della combinazione di consumo attuata con il bene B" ricevuto nello scambio. Deve, inoltre, essere: p < CA(B") < U(B") [4] Ciò, naturalmente, deve valere - in forma simmetrica - anche per l'altro scambista Y per il quale lo scambio del bene B" prodotto con il bene B' necessario per il consumo finale risulta conveniente solo se: C(B") < p < U(B') [5] e p < CA(B') < U(B') [6] Tenendo conto contemporaneamente della [3] e della [6], eliminando U(B') e U(B"), considerati non quantificabili, consegue che deve essere: C(B') < p < CA(B') [7] Considerando la [4] e la [5], dopo avere trascurato le utilità, risulta: C(B") < p < CA(B") [8] Ciò porta a concludere che, considerando anche i fenomeni interconnessi della "produzione" e dello "scambio", deve risultare, in generale: C(B) < p < CA(B), [9] avendo indicato con B, come in precedenza, un bene ottenuto da un dato processo produttivo. Se p < C(B), il produttore non produce; se p > CA(B) il consumatore non acquista, ma autoproduce. La [9] evidenzia come la ragione di scambio divida, quindi, la produttività generata dalla produzione in due quote:
[13]. L'ipotesi della produttività crescente, in quanto ipotesi teorica, non può mai essere verificata, ma solo corroborata da esempi positivi, pur potendo essere falsificata (nel senso di Popper). L'ipotesi dell'aumento progressivo della produttività può essere considerata un caso particolare di una più ampia ipotesi (ontologica) del continuo miglioramento (o progresso). Constatiamo, innanzitutto, che dall'osservazione della "realtà" sembra emergere l'esistenza di tre grandi ipotesi o leggi circa il divenire della materia (ma cos'è mai la materia?):
La legge del disordine afferma che l'universo tende al massimo stato di casualità, al massimo disordine, a scapito dell'ordine (in termini tecnici: alla massima "entropia"); tale legge è oggi accettata da ogni scienziato e è formalizzata nella "seconda legge della termodinamica". La legge dell'ordine, in apparente contrasto con la precedente, afferma, invece, che la materia tende ad assumere strutture ordinate (nelle quali l'entropia diminuisce), che ci appaiono in tutta la loro meravigliosa complessità nella veste degli organismi biologici e delle organizzazioni socio-politiche. Mentre la legge del disordine è la legge degli insiemi eterogenei che si uniscono in insiemi sempre più statisticamente omogenei, la legge dell'ordine si percepisce con la nascita dei sistemi, delle strutture ordinate, formate da elementi diversi, ciascuno dei quali assume un ruolo e svolge una funzione secondo una data "informazione". L'ordine si regge su informazioni incorporate nel sistema o nei suoi elementi. La legge del miglioramento afferma che la materia tende ad incorporarsi in strutture ordinate sempre più evolute e che tali strutture si diffondono il più possibile, a scapito del disordine, compatibilmente con le risorse e le informazioni disponibili per riprodursi (dal filo d'erba che cresce tra i granuli di asfalto ai programmi spaziali per "esportare" la vita su altri pianeti). Non solo l'ordine si diffonde ovunque, ma, ove possibile, le strutture ordinate diventano sempre più efficienti, si evolvono e, nell'evoluzione, progrediscono. È immediato rendersi conto di come la legge del disordine regni sovrana nell'ambito della materia inanimata e di come quella dell'ordine caratterizzi, invece, la materia animata nella quale predominano i sistemi operatori, mentre quella del progresso si riscontri nelle popolazioni biologiche e nelle popolazioni sociali, dando vita ai sistemi combinatori. La legge del disordine è la legge del livellamento delle differenze; quella dell'ordine è la legge della creazione e del mantenimento di differenze tra ciò che è nel sistema e ciò che appartiene all'ambiente esterno; la legge del progresso è la legge dell'accentuazione delle differenze "vantaggiose" tra individui e popolazioni. Infine, la legge del disordine è la legge dell'"ignoranza"; quella dell'ordine è la legge dell'"informazione" (e dell'informazione trasmessa); quella del progresso è la legge del "giudizio", in quanto implica sempre un confronto tra un prima e un dopo, al fine di percepirne e giudicarne il miglioramento; è quindi la legge dell'intelligenza, dell'uomo, cosė come lo concepiamo. In questo contesto, l'Umanità rappresenta, dunque, il sistema combinatorio più evoluto composto di uomini, nel quale prevale la legge del progresso, della quale l'ipotesi dell'incremento della produttività, del miglioramento dell'efficienza non è che un aspetto. [14]. Nelle organizzazioni (cosė chiamiamo, per semplicità le strutture organizzative) si sviluppa il lavoro umano secondo l'ipotesi di razionalità (aumento del beneficio del lavoro e riduzione del sacrificio del lavorare). In base alla forma in cui viene esplicitata l'ipotesi di razionalità, ritengo sia necessario distinguere due specie di organizzazioni: controllanti e controllate. Definiamo organizzazioni controllanti quelle nelle quali l'organizzazione, a mezzo di suoi organi di controllo, riesce a "convogliare" a beneficio dell'organizzazione stessa il comportamento razionale dell'uomo che vi lavora. La struttura organizzativa riesce a far sė che il lavoratore, nel prestare la propria attività, aumenti continuamente la propria efficienza e riesca a trarne vantaggio, in modo da essere incentivato ad aumentare ancora i livelli di efficienza per potere conseguire ulteriori vantaggi. In queste condizioni, l'aumento dell'efficienza del lavoratore si traduce in una maggiore efficienza dell'intera struttura, quindi in un aumento della produttività aziendale. Sono, invece, controllate, le organizzazioni nelle quali è lo stesso lavoratore a far sė che l'organizzazione "subisca" il proprio comportamento razionale. In esse il lavoratore riesce a fare propri i benefici del "lavorare", impoverendo la struttura; oppure, a parità di benefici ottenibili, riduce progressivamente la qualità e/o la quantità del proprio lavoro. In queste organizzazioni ogni aumento dell'efficienza del lavoratore si traduce, di norma, in una riduzione dell'efficienza della struttura. I moderni sistemi di tempi&metodi, gli zero-base-budget, i circoli di qualità, le "internal corporate venture" ed altre moderne forme di controllo di gestione, per aumentare l'efficienza sono attuabili solo in organizzazioni controllanti; quelle controllate si opporranno a tali forme di controllo. "Sono dal Direttore", si legge sullo sportello di un ufficio pubblico nel quale "lavorava" - si fa per dire - una persona ... che fino a poco prima era seduta al bar a leggere un quotidiano sportivo. Se dopo mezz'ora di attesa desistete e ve ne andate, sappiate che quel lavoratore teneva un comportamento perfettamente razionale ..., nell'ambito, però, di una organizzazione controllata. Sappiate inoltre che quel lavoratore, non appena gli sarà possibile, chiederà incentivi basati .. sulla produttività. Le prime e più durature forme di organizzazioni controllanti sono state quelle nelle quali il controllo era fondato sulla coercizione. Oggi, pur sopravvivendo aree nelle quali la coercizione rappresenta ancora l'unica forma di controllo organizzativo, tale controllo si sviluppa attraverso la ricerca di collaborazione. [15]. Le aziende di produzione sono sottoposte a rischi vari che possiamo distinguere in tre classi tra loro correlate:
[16]. Il profitto rappresenta il risultato della trasformazione economica attuata dall'impresa, risultato quantificato, però, dal punto di vista dell'impresa stessa; è la misura dell'incremento della ricchezza ottenuta dalla produzione. Se osserviamo l'impresa quale sistema operatore in grado di sviluppare la produttività, appare facilmente intuibile come l'aumento della produttività vada a ridurre il costo di produzione. Formalmente, il risultato economico dell'attività produttiva si quantifica dalla differenza tra la ragione di scambio p(B) che il produttore riesce ad ottenere e il costo di produzione C(B). Tale quantità rappresenta il "profitto" (unitario). Se prescindiamo, per il momento, dal problema dell'omogeneizzazione quantitativa dei due termini, possiamo scrivere, sinteticamente: Profitto(B) = p(B) - C(B) [1] La ragione di scambio consente di determinare i "ricavi" ottenuti dall'impresa; indicandoli con R(B), e simbolizzando con CM, CL e CK, rispettivamente, il costo delle Materie, del Lavoro e del Capitale impiegati nella produzione (questa distinzione è tipica della logica aziendale anche se l'economia distingue i fattori in Terra, Lavoro e Capitale), la [1] si può riscrivere, significativamente: Profitto = R(B) - (CL + CT + CK) [2] La ragione di scambio, però, come abbiamo dimostrato in altra nota, ha la funzione di scindere la produttività totale dell'azienda di produzione in due quote: una trattenuta dall'azienda e una a vantaggio del consumatore. Il profitto può allora interpretarsi come la misura della produttività ottenuta dall'impresa e trattenuta al suo interno in quanto non distribuita né al "consumatore", tramite riduzione dei prezzi di vendita, né ai "fattori della produzione" tramite aumenti delle remunerazioni. Per questo il profitto non è la misura completa della produttività e dell'efficienza per il sistema ma solo per l'impresa. Supponiamo che un'impresa produca con un costo di 80 e venda al prezzo di 100, realizzando un profitto di 20. Supponiamo ancora che l'impresa abbia un aumento di produttività in grado di ridurre i costi a 60. Se il prezzo non varia, tutto l'aumento di produttività si trasforma in profitto che aumenta a 40. Una parte di tale profitto, tuttavia, può andare a beneficiare il consumatore tramite una riduzione del prezzo di vendita, poniamo a 90; un'altra parte può andare a beneficio dei lavoratori, poniamo per 15, sicché i costi di produzione non si riducono a 60 ma a 75. La differenza tra il ridotto prezzo di 90 e i costi di produzione, ridotti a 75 anziché a 60, diventa di 15 e rappresenta il profitto misurato per l'impresa; esso può essere trattenuto dall'impresa (autofinanziamento) o può essere destinato a remunerare qualche fattore della produzione (storicamente il profitto è stato di norma destinato alla remunerazione integrativa dei capitali). [17]. Si veda la nota [16]. Non sempre le imprese riescono ad essere organizzazioni controllanti; la condizione, tuttavia, statuisce che non si ha impresa se il management non ha la possibilità di "tentare" di strutturare un'organizzazione controllante. Ciò si verifica ad esempio in molte aziende di produzione di servizi pubblici nelle quali vincoli socio-politici impongono al management di non controllare le prestazioni lavorative dei subordinati. Inevitabilmente, il comportamento razionale del lavoratore porta ad una struttura controllata. L'osservazione lo dimostra. Per una gestione "imprenditoriale" delle aziende che producono servizi pubblici non è sufficiente, quindi, l'assegnazione di maggiori responsabilità ai manager e la concessione di "autonomia amministrativa"; è necessario concedere al management le condizioni per formare un'organizzazione controllante che abbia in un risultato economicamente misurabile (comunque lo si voglia chiamare) un metro di efficienza. Altrimenti, per evitare i rischi, anche i manager risponderanno secondo l'ipotesi di razionalità ... [18]. Le imprese, in quest'ottica, sono pensate come il mezzo per trasformare un investimento di capitale pari a K(t) in una quantità di risorse maggiori CN(t+T) al termine del ciclo produttivo T. Le risorse monetarie sono investite e corrono i rischi della produzione; il profitto è esso stesso monetario e viene definito come il risultato dell'investimento, cioè come l'incremento subito da K(t) nel periodo T; Profitto = K(t+T) - K(t) Le risorse investite, K(t), sono impiegate per l'acquisizione dei fattori produttivi da impiegare nei processi; si formano i costi di acquisto, C(T) intesi come l'ammontare delle risorse monetarie da recuperare al termine del processo produttivo; i beni ottenuti sono ceduti e l'impresa può recuperare le risorse monetarie spese; si formano i ricavi, R(T), intesi, appunto, come l'ammontare delle risorse monetarie recuperate al termine dei processi produttivi; il profitto rappresenta, allora, la "misura" delle risorse recuperate in più rispetto a quelle spese per l'attuazione dei processi e si misura dalla differenza: Profitto = R(T) - C(T) Risulta allora che: CN(t+T) - CN(t) = RV(T) - CA(T) equazione ormai assunta a fondamento delle regole applicative di tutte le teoriche contabili moderne; sulla sua base il profitto può essere interpretato come l'incremento subito dal capitale per effetto della gestione; essa dimostra però anche che il capitale si incrementa se, per effetto della gestione, l'impresa consegue un profitto. [19]. Indichiamo con ROE (Return On Equity) il rendimento ottenibile in un anno dal capitale investito nell'impresa (ROE=reddito/capitale). La decisione di investire capitali, o di mantenerli investiti in una data impresa, non dovrebbe dipendere solo dal ROE che essi possono ricevere in quell'impresa, ma anche dal rendimento degli investimenti alternativi attuabili con quei capitali. È intuitivo supporre che, se un soggetto, attuando un investimento A, può ottenere dai suoi capitali un rendimento finanziario del 12% (ROE(A)=12%), se ha libertà di investimento e se agisce con razionalità, rifiuterà ogni investimento che dia un rendimento inferiore. Si definisce costo opportunità del capitale destinabile ad un dato investimento - a anche "costo implicito del capitale" da investire - il rendimento offerto dal migliore investimento alternativo. Supponiamo siano attuabili gli investimenti X, Y e Z, i cui rendimenti siano ROE(X)=12%, ROE(Y)=14% e ROE(Z)=18%; il costo opportunità del capitale per quel soggetto risulta allora essere pari al 18% (rendimento finanziario più elevato). Quel soggetto accetterà di investire in A solo se ROI(A)>18%. Possiamo dimostrare che un capitale si mantiene finanziariamente integro se frutta un ROE almeno pari al costo opportunità. Sappiamo dalla matematica finanziaria che, se un soggetto investe un capitale K, al tasso i, per un periodo unitario di tempo, allora il reddito fruttato dal capitale sarà, nell'unità di tempo: R = K x i Noti K e i, si possono determinare i redditi R. La relazione, tuttavia, si può invertire e si può scrivere: In questo caso K rappresenta il valore economico dei redditi R e K stesso si può definire "capitale economico". Un capitale K si definisce finanziariamente integro, se frutta redditi medi futuri - R - in misura tale che, attualizzati ad un tasso pari al costo opportunità dell'investitore, si ottenga il capitale economico. Cosė, se supponiamo di avere investito 1.000 lire per ottenere redditi annui mediamente pari a 110 lire, il capitale frutta un ROE annuo pari all'11%. Se l'investitore ha un costo opportunità pari al 10%, l'attualizzazione dei redditi dell'investimento a tale tasso consente di ottenere un capitale economico pari a: In questo caso l'investimento non solo mantiene finanziariamente integro il capitale di 1.000 investito, ma ne accresce il valore economico a 1.100, fruttando un capital gain di 100 rispetto al migliore degli investimenti alternativi. Se il costo opportunità dell'investitore fosse del 15%, il capitale economico dell'investimento sarebbe pari a: In questo caso l'investimento non sarebbe in grado di mantenere finanziariamente integro il capitale di 1.000 investito per ottenere i redditi annui di 110. Facendo riferimento all'impresa, l'investitore del capitale di rischio - cioè il soggetto che ha conferito il capitale proprio, CN - si aspetta che il management sia in grado di mantenere finanziariamente integro nel tempo il valore di tale capitale; questa condizione si manifesta quando l'impresa consente di ottenere redditi almeno uguali a quelli ottenibili dal migliore investimento alternativo. Da queste relazioni si deduce, quindi, come l'obiettivo manageriale massimo, nelle imprese considerate quali trasformatori finanziari, sia quello del mantenimento dell'integrità finanziaria del capitale in esse investito. In genere, quindi, il management non si pone l'obiettivo generico del "massimo profitto", ma specifica desiderati livelli di profitto, in grado di mantenere l'integrità del capitale conferito nell'impresa. [20]. L'impresa moderna può quindi essere considerata un sistema operatore di trasformazione, nel quale sono attuate quattro trasformazioni: 1) produttiva, 2) economica, 3) finanziaria, 4) imprenditoriale, tutte tese a realizzare la massima efficienza. Tale concezione dell'impresa può essere rappresentata nel seguente modello: [21]. Non si deve confondere il problema dell'individuazione della funzione propulsiva del profitto per lo sviluppo della produttività con il problema etico della sua distribuzione. Il primo problema si traduce nella domanda: "Quali sono le conseguenze della ricerca del profitto?"; ad essa ho cercato di offrire una risposta nel testo; il secondo risponde all'interrogativo: "A chi spetta il profitto, cioè il surplus di produttività generato dal lavoro organizzato e non ancora distribuito dall'impresa?" Consideriamo questo secondo aspetto: da un punto di vista teorico tale grandezza pertiene alla stessa impresa, in quanto solo in essa, come abbiamo osservato, si producono le sinergie del lavoro organizzato. Il profitto può essere trattenuto dall'impresa e reinvestito, dando cosė l'avvio ad un processo di espansione del capitale e ad un ulteriore incremento della produttività, oppure può essere distribuito, con procedure varie, ai fattori della produzione, sotto forma di retribuzioni integrative. L'analisi delle forme di distribuzione del profitto esula, però, dal campo di indagine dell'economia aziendale. La distribuzione del profitto, in quanto distribuzione di una parte della produttività ottenuta congiuntamente dall'impiego di diversi fattori, è la conseguenza, infatti, dei rapporti di potere tra i portatori dei fattori della produzione e deve quindi essere subordinata alla ricerca dei soggetti che nell'impresa detengono maggiore potere. La logica economica e l'osservazione della realtà ci consentono di rilevare come, in linea di massima, la distribuzione del profitto sia influenzata dal fattore più scarso, quindi più utile, quindi più potente. L'osservazione storica dimostra che il profitto distribuito è andato a beneficio dei soggetti che per primi hanno avviato la produzione con l'impiego di qualche "fattore della produttività"; essi, grazie ai differenziali di produttività sviluppati con l'impiego di tali "fattori" e non distribuiti, hanno potuto disporre della ricchezza sufficiente per attuare le anticipazioni necessarie per la produzione, assumendosi in prima persona il rischio economico della produzione, diventando "fornitori" di capitale. Questi soggetti, potendo disporre del capitale necessario per "impiantare" un'impresa, assumevano il ruolo di "padroni", creando, con il ricorso anche a vincoli di legge, organizzazioni strettamente controllate, in grado di produrre con produttività sempre più elevata. Il profitto è stato quindi fonte di lotte di potere per la sua appropriazione, lotte che hanno visto di fronte i capitalisti-padroni e i lavoratori e che si sono spesso concluse tragicamente. Con l'ampliarsi delle dimensioni delle imprese - e soprattutto, con la diffusione dell'istituto della "società per azioni" - il potere del capitale nel decidere la quota di profitto distribuibile subisce una diminuzione relativa; il fattore più scarso diventa sempre più l'abilità manageriale; da un lato, aumenta la tendenza a trattenere il profitto per favorire l'espansione e la sicurezza; dall'altro aumenta sempre più la quota di profitto destinata agli altri fattori. La famosa "legge bronzea dei salari" affermava che le retribuzioni non avrebbero potuto superare i minimi livelli di sussistenza dei lavoratori e certamente tale legge trova il suo fondamento sull'osservazione che le prime imprese, in quanto gestite dal capitalista-padrone, in quanto organizzazioni controllate spesso con forme di coercizione, erano portate a trattenere il surplus di produttività per lo sviluppo, e la distribuzione del profitto era attuata quasi interamente a favore del capitalista-padrone; al lavoratore si offriva una retribuzione tendente alla produttività del lavoro senza capitale; retribuzione che senza abilità e organizzazione tenderebbe ad abbassarsi ai livelli di produttività dell'autoproduzione. Oggi, tuttavia, anche i lavoratori beneficiano di quote sempre più ampie di profitto, in quanto con l'organizzazione sindacale aumenta anche il loro potere come gruppo; le rivendicazioni salariali consentono non solo di aumentare le retribuzioni ben oltre i livelli dell'autoproduzione, ma anche di destinare quote di surplus di produttività anche ai lavoratori, come i recenti accordi delle grandi imprese italiane dimostrano (gli accordi FIAT e OLIVETTI sono esempi eclatanti ma in generale, nelle piccole e medie aziende, sono diffusi gli incentivi commisurati ai risultati). [22]. Per chiarire questo punto essenziale dell'argomentazione, riprendiamo il modello della nota [20] e quantifichiamo l'efficienza della trasformazione economica (terzo blocco dall'alto), vale a dire l'efficienza dell'impresa quale sistema di trasformazione economica di costi (INPUT) in ricavi (OUTPUT). Tale forma di efficienza può essere definita come l'attitudine del sistema a rendere massimo il divario tra i flussi economici positivi (ricavi) e negativi (costi), cioè a rendere massimo il rapporto seguente, definito rapporto di economicità: Ricordando che i ricavi e i costi si quantificano dal prodotto delle quantità per i rispettivi prezzi, il precedente rapporto può anche essere scritto come segue: Il primo dei rapporti finali è il rapporto di produttività (fisica) dei fattori di produzione e esprime l'efficienza della trasformazione produttiva (secondo blocco dall'alto della figura [20] e si definisce efficienza interna o di combinazione. Il secondo rapporto, quello tra prezzi e costi unitari, è indice, invece, della capacità dell'impresa di negoziare "al meglio" le produzioni - sui mercati di sbocco - e i fattori - sui mercati di approvvigionamento - e si può definire, per questo, rapporto di efficienza esterna o efficienza commerciale o efficienza di negoziazione. Come la trasformazione economica dipende da quella produttiva, cosė l'efficienza economica è funzione dell'efficienza sia interna (produttiva) sia esterna (commerciale). [23]. Cfr. Yasuhiro Monden, Produzione just-in-time, ISEDI, Torino, 1986, pag. XXX (Prefazione) [24]. Questa conclusione è rappresentabile con il seguente modello semplificato di impresa come sistema di trasformazione di efficienza in profitto. Gli input sono rappresentati dai prezzi di vendita, funzione dell'efficienza esterna e dai costi unitari di produzione che possono essere pensati come un indicatore significativo di efficienza interna, in quanto dipendono dalla produttività dei fattori (supponiamo sia trascurabile l'effetto sui costi dell'efficienza esterna di negoziazione dei fattori). Il modello deve leggersi come segue: quando si verifica uno scostamento tra il livello di profitto atteso, posto quale obiettivo (nei programmi) e il livello effettivo di profitto (output), allora l'impresa deve cercare di modificare gli input, vale a dire:
La prima forma di intervento si attua con la ricerca di posizioni di "potere" sui mercati (riduzione della concorrenza) e, come si è osservato, tale forma appare fortemente ostacolata dal sistema combinatorio. La riduzione dei costi di produzione implica un aumento dell'efficienza interna che può essere conseguito o mediante forme di razionalizzazione produttiva o tramite la realizzazione di "economie di scala". In entrambi i casi l'azione imprenditoriale può essere favorita dall'aumento delle dimensioni di impresa, sia nel tentativo di acquisire posizioni vicine al monopolio, sia per attuare forme di integrazione produttiva. La ricerca dell'efficienza favorisce, quindi, l'espansione delle dimensioni di impresa. [25]. La rivoluzione industriale ha avuto l'avvio da meno di due secoli. C'è voluto un secolo per arrivare ad un tenore di vita modesto, ma dignitoso. Nel periodo tra la prima e la seconda guerra mondiale il tenore di vita nelle società occidentali, nelle quali opera l'impresa spinta dal profitto, ha avuto un notevole balzo verso alto. Le distruzioni provocate nel sistema produttivo dalla seconda guerra mondiale sono state ingenti sia in Occidente sia in Oriente e, in alcuni casi, pressoché totali. In meno di dieci anni dalla fine della guerra, tuttavia, tanto le società occidentali - che nella ricerca del profitto hanno sviluppato ancora la produttività - quanto quelle orientali - che preordinano la ricerca della produttività a motivazioni di ordine non sempre economico ("Il commercio è una guerra!", "La fedeltà all'impresa e l'ubbidienza al superiore sono un dovere!") -, pure emerse dal conflitto praticamente prive di capitale, ma dotate di lavoro abile, hanno compiuto l'opera di ricostruzione, e oggi in tali paesi vive una "società opulenta". L'impresa è riuscita a trasformare lavoro attrezzato e organizzato in ricchezza, tramite il risparmio e il profitto, e ha saputo avviare un processo di espansione cosė rapido da essere definito, addirittura, "Boom economico". [26]. Nelle organizzazioni (cosė chiamiamo, per semplicità le strutture organizzative) si sviluppa il lavoro umano secondo l'ipotesi di razionalità (aumento del beneficio del lavoro e riduzione del sacrificio del lavorare). In base alla forma in cui viene esplicitata l'ipotesi di razionalità, ritengo sia necessario distinguere due specie di organizzazioni: controllanti e controllate. Definiamo organizzazioni controllanti quelle nelle quali l'organizzazione, a mezzo di suoi organi di controllo, riesce a "convogliare" a beneficio dell'organizzazione stessa il comportamento razionale dell'uomo che vi lavora. La struttura organizzativa riesce a far sė che il lavoratore, nel prestare la propria attività, aumenti continuamente la propria efficienza e riesca a trarne vantaggio, in modo da essere incentivato ad aumentare ancora i livelli di efficienza per potere conseguire ulteriori vantaggi. In queste condizioni, l'aumento dell'efficienza del lavoratore si traduce in una maggiore efficienza dell'intera struttura, quindi in un aumento della produttività aziendale. Sono, invece, controllate, le organizzazioni nelle quali è lo stesso lavoratore a far sė che l'organizzazione "subisca" il proprio comportamento razionale. In esse il lavoratore riesce a fare propri i benefici del "lavorare", impoverendo la struttura; oppure, a parità di benefici ottenibili, riduce progressivamente la qualità e/o la quantità del proprio lavoro. In queste organizzazioni ogni aumento dell'efficienza del lavoratore si traduce, di norma, in una riduzione dell'efficienza della struttura. I moderni sistemi di tempi&metodi, gli zero-base-budget, i circoli di qualità, le "internal corporate venture" ed altre moderne forme di controllo di gestione, per aumentare l'efficienza sono attuabili solo in organizzazioni controllanti; quelle controllate si opporranno a tali forme di controllo. "Sono dal Direttore", si legge sullo sportello di un ufficio pubblico nel quale "lavorava" - si fa per dire - una persona ... che fino a poco prima era seduta al bar a leggere un quotidiano sportivo. Se dopo mezz'ora di attesa desistete e ve ne andate, sappiate che quel lavoratore teneva un comportamento perfettamente razionale ..., nell'ambito, però, di una organizzazione controllata. Sappiate inoltre che quel lavoratore, non appena gli sarà possibile, chiederà incentivi basati .. sulla produttività. Le prime e più durature forme di organizzazioni controllanti sono state quelle nelle quali il controllo era fondato sulla coercizione. Oggi, pur sopravvivendo aree nelle quali la coercizione rappresenta ancora l'unica forma di controllo organizzativo, tale controllo si sviluppa attraverso la ricerca di collaborazione. |